Piero Guccione è un altro di quegli artisti che frequentemente ricorrono con le loro opere nelle esposizioni sostenute dal Gruppo Euromobil. La sua nascita avviene il 5 maggio del 1935 a Scicli, nella fascia sud-orientale della Sicilia, in provincia di Ragusa, a pochi chilometri dal mare che affaccia sull'Africa.
La madre era di Scicli e il padre modicano, ottimo sarto, con spiccata propensione musicale come molti artigiani di allora.
Uno dei ricordi più cari è quello legato agli avventurosi viaggi in treno, nel dopoguerra, fino a Catania dove il padre portava la famiglia ad assistere alle opere, quelle più amate, che il teatro Massimo Bellini aveva ricominciato ad allestire: memorabile - per Guccione ragazzo di dodici, tredici anni - una Norma con Maria Caniglia e un Gigli non più giovane, francamente inattendibile nel corpo di Pollione.
La natura sensibile del padre fu certamente una buona alleata per Guccione contro la madre, che avrebbe voluto ad ogni costo che il figlio diventasse medico, quando in famiglia si dovette decidere il suo destino: abbandonare gli studi classici, del resto poco apprezzati, per dedicarsi al vero piacere di disegnare e di dipingere. In seguito a questa decisione frequentò per un anno la Scuola d'Arte di Comiso (una bella e attrezzatissima scuola dove si lavarava molto seriamente) e nel 1954, a Catania, completò, per così dire, gli studi artistici, diplomandosi presso l'Istituto d'Arte, dove aveva trascorso tre anni, forse i più felici della sua piccola carriera scolastica. Proprio quell' anno, però, durante l'estate, improvvisamente morì il suo caro "alleato" che, insieme a un lutto dolente, gli lasciò la coscienza libera di agire e di muoversi secondo l'impulso e il bisogno di libertà solitamente forte e molto sentito dai giovani.
Roma era la città sognata, perché vi risiedevano gli artisti più ammirati, da Pirandello a Guttuso, a Mafai. Fu quella, dunque, la scelta naturale. Così, in una splendida mattina di ottobre, insieme all' amico Lucio Schirò, che lo avrebbe ospitato durante i primi giorni nella casa di un suo zio, si ritrovò nella Città Eterna, senza molti punti di riferimento, ma con l'idea, o piuttosto, con un istinto abbastanza chiaro di quello che voleva fare. Dei ventisette anni che seguirono - tale fu la durata del suo soggiorno romano - nonostante l'importanza e la densità di eventi, di incontri alcuni fondamentali o addirittura decisivi come il matrimonio e la nascita della figlia Paola non riesce a isolare nessun elemento da ciò che appare come un caotico grumo di vita allontanato, perduto per sempre nello spazio e nel tempo. Furono anni difficili, specialmente i primi, per la precarietà dei mezzi, ma anche per una paralizzante timidezza che si portava dietro e che non gli facilitava la vita. Non mancarono comunque simpatia e amicizie con alcuni artisti e con giovani coetanei (qualcuna - come rarissimamente accade - attiva ancora oggi, come quella con Franco Sarnari), qualche amore, complicato sempre dalla timidezza e le prime illusioni d
silluse e vanità mortificate, insieme alle tenaci speranze (senza cognizione alcuna che di speranza si trattasse). E tuttavia, in questo lungo e controverso percorso, oggi Guccione può dirsi certo di aver trovato più generosità che avarizia, più bene che male nella sostanza, con un conseguente senso di gratitudine per la sorte riservatagli.
La pittura è stata il centro, la dimensione dominante che ha accompagnato i suoi passi. Modificandosi di volta in volta per condizionamenti culturali e persino secondo le case abitate e i luoghi frequentati. In un certo senso, pur nella sua modestia, potrebbe essere questo un esempio che vale come conferma di sé; pensiero di Merleau-Ponty, secondo il quale la pittura, anche quando sembra destinata ad altri scopi, «non celebra mai altro enigma che quello della visibilità.»
Così è stato sempre e sempre di più, nel percorso verso la maturità; maturità non solo di anni, ma anche di mente e di cuore.
Da Roma alla Sicilia, dove Guccione ritorna a vivere dalla fine degli anni settanta, il percorso, bene o male, è rintracciabile nel suo lavoro, l'unica valida testimonianza che può dare della propria vita. Perché anche di questi vent'anni (oltre che un amoroso omaggio a Sonia), insieme all'usura delle certezze, tutta l'esperienza del vissuto sembra cancellarsi, mentre quella del lavoro è quasi percepibile unicamente collocata tra il pollice, l'indice e il medio della mano destra: vale a dire sull'alveocorporale dove il pennello si posa. Nel quotidiano tentativo, per citare ancora Merleau-Ponty, di rivelare la visibilità delle cose e il loro enigma. Che, in Sicilia vuol dire soprattutto la visibilità inafferrabile della luce: ogni giorno più splendente di meraviglie come mai viste prima.